In un caldo pomeriggio primaverile il sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Antonino Di Matteo, accoglie la mia richiesta per un’intervista. Mi riceve presso il suo ufficio alla DNA e quello che segue è un dialogo costruttivo da parte di un cultore della materia (lui) ed io (giovane studente in cerca di risposte continue su una tematica complessa quale è la lotta alle Mafie).
Consigliere, innanzitutto la ringrazio per la disponibilità. Partirei dal principio, quali sono i motivi che l’hanno spinta ad entrare in magistratura trent’anni fa?
Io sono nato e cresciuto a Palermo, una città questa ad alta densità mafiosa. Il periodo che va dai miei studi liceali a quelli universitari è caratterizzato in quel momento da un succedersi di eventi delittuosi. Non solo centinaia di morti nella guerra di Mafia a Palermo, ma soprattutto delitti eccellenti: dal delitto del giornalista Peppino Impastato al delitto del Presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella; l’omicidio del Prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa; ancora agli omicidi del commissario Beppe Montana a quello del commissario Ninni Cassarà; per poi arrivare, infine, alla strage del Capo dell’Ufficio di Istruzione della Procura di Palermo, Rocco Chinnici. In quella Palermo così disperata nasceva, soprattutto tra i giovani, una voglia di riscatto. Un riscatto dell’immagine della propria terra. Ricordo che quando da ragazzo mi capitava di fare un viaggio, non solo all’estero ma anche nel nord Italia, nel momento in cui le persone venivano a conoscenza del fatto che io venivo da Palermo, la prima parola che pronunciavano era “mafia”. Questo suscitava una grande voglia di riscatto da una parte della popolazione. Questo grazie anche al lavoro del primo Pool Antimafia guidato dal Consigliere Chinnici. Lì è nata la passione per la magistratura e l’approfondimento delle vicende di mafia. Si iniziava a capire che la mafia si nutriva del rapporto sia politico sia economico del potere. In quel momento non avevo l’idea di fare il magistrato che scrivesse delle sentenze storiche che sarebbero passate sui libri giuridici, ma cercare di dare un contributo alla lotta alla mafia.
Infatti, lei superò il concorso e dopo il periodo da uditore fu assegnato alla procura di Caltanissetta.
Esattamente. Il destino ha voluto che sin da subito mi occupassi di mafia. Siamo in un periodo storico particolare, perché alla fine del 1992, in quella sede giudiziaria, ci si occupava delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Alla fine del 1993 entrai a far parte della Direzione Distrettuale Antimafia di quella Procura. Così giovane magistrato la mia carriera iniziò con il taglio dei processi antimafia.
Consigliere, vorrei partire da un’affermazione che ha fatto Leonardo Guarnotta (membro del primo Pool Antimafia di Palermo), il quale ha affermato per l’appunto che “questo mestiere (quello del magistrato) si passava di padre in figlio […] io vengo da una famiglia dove mio padre non lo era (magistrato) […] non avevo esempi”. Lei da chi ha tratto esempio per entrare in magistratura?
Guardi come ho già anticipato, nel corso dei miei studi, il mio riferimento era quel gruppo di magistrati che costituivano il primo Pool Antimafia di Palermo. Nella mia vita, sin da piccolo, ho in qualche modo respirato l’aria fresca della giustizia, o meglio del tentativo di avere giustizia. Mio nonno, il padre di mio padre, durante il Fascismo era un magistrato e subì anche delle conseguenze da un punto di vista di blocco della carriera, proprio perché era insensibile alle pressioni del governo fascista. Infatti, si dimise e fece l’avvocato. Stessa cosa fece mio padre. In casa ho sempre respirato l’aria della voglia di giustizia. I fatti che accadevano non solo a Palermo ma anche in tutta l’Italia, mi hanno indirizzato verso il concorso in magistratura. Soprattutto perché mi volevo occupare di mafia, e tranne brevi periodi della mia carriera, è quello di cui mi sono sempre occupato.
Lei si è sempre occupato di mafia. Tant’è che lei ha raccontato che da giovane uditore presso la Procura di Palermo ha vissuto il periodo delle stragi del 1992. Cosa si ricorda, da un punto di vista personale, dell’omicidio di Salvo Lima(politico siciliano della Democrazia Cristiana) e poi successivamente delle stragi di Capaci e via D’Amelio?
Guardi io ricordo nitidamente tutto. In particolar modo ricordo che il giorno in cui si verificò l’omicidio di Salvo Lima, coincise con il giorno in cui qui a Roma noi dovevamo indicare, secondo la graduatoria del concorso che era stata stilata, la sede che avremmo voluto scegliere alla fine del tirocinio. Proprio quel giorno decisi come prima sede la Procura di Caltanissetta. Sa per un palermitano era chiaro sin dall’inizio l’impatto devastante del delitto. Ricordo tutto e rimarranno per sempre scolpiti nella mia mente e nel mio cuore, prima della strage di Capaci e poi della strage di Via D’Amelio. In occasione di quest’ultima, l’istinto fu quello di andare in Procura. Ho vissuto quello che era il clima di sgomento e di grande rabbia dei colleghi che lavoravano da più tempo in Procura. Avevo realizzato un sogno, poter conoscere Falcone e Borsellino, stringere loro la mano, il poter avere da loro un incoraggiamento per il mio impegno. Subito dopo aver realizzato quel sogno sono morti insiemi ai valorosi componenti delle loro scorte, e nel caso di Falcone anche della moglie Francesca Morvillo (giudice presso il tribunale dei minori). Fu indubbiamente un impatto molto forte. Vorrei dire una cosa che sento profondamente: chi ha vissuto quei momenti, e chi li ha vissuti a Palermo e ha respirato l’odore e il clima di morte, porta dentro una motivazione particolare. I magistrati che sono entrati in carriera in quel periodo, risentivano e risentono, secondo me in maniera positiva, del peso e della responsabilità di essere colleghi di quegli eroi. Magistrati che avevano onorato fino al sacrificio della vita la toga che indossavano. Spero sempre che il valore della memoria non venga meno, e che questo non sia sterile esercizio retorico. La vera memoria consiste nel cercare di capire e far capire quello che c’è stato dietro quelle vite e quelle morti. Quanto sono stati profondi quegli interessi, non solo della Mafia, di organizzare quelle stragi. Quanto oggi i nomi di quegli eroi civili vengano spesso strumentalizzati anche da chi mentre erano in vita li ha combattuti. Il paradosso è questo, molti personaggi che avevano osteggiato il lavoro di Giovanni Falcone definendolo un magistrato politicizzato e magistrato comunista. Definendolo come un magistrato che in cerca di fama si era organizzato il fallito attentato all’Addaura. Oggi sono quelli che denigrano i magistrati vivi, facendo finta di onorare i magistrati morti.
Spesso, infatti, si dice “se Falcone fosse ancora vivo” non avrebbe fatto determinate cose.
Proprio così. La critica più comune è sentir dire che Falcone non avrebbe mai scritto libri oppure andare a parlare nei dibattiti televisivi. Queste affermazioni sono false e strumentali. Quando Falcone veniva attaccato, e definito magistrato protagonista, perché andava a parlare in televisione, nei convegni, scriveva dei libri. Oggi a distanza di tanto tempo provoca un grande dispiacere che molti a fini strumentali stravolgano la realtà. Noi abbiamo un dovere verso le generazioni future, ovvero testimoniare il dato reale delle vicende di mafia.
Consigliere, lei si è occupato del processo sulla strage di Via D’Amelio, il Borsellino ter. Che cosa si prova a cercare la verità?
Si mi sono occupato del Borsellino ter, mentre solo nella fase dibattimentale del Borsellino bis. Guardi io ho sempre vissuto quel tipo di indagini con trasporto emotivo. Mi sono sempre ripromesso, come era giusto fare, di cercare di separare il dato emotivo personale dal mio lavoro. Il problema in certi casi è proprio quello di affrontare le indagini e i processi con il massimo impegno nella ricerca della verità, ma senza coinvolgere gli aspetti personali più intimi. Questo mi è capitato perfino in situazioni in cui mi sono trovato a leggere ed analizzare le intercettazioni di Salvatore Riina con il suo compagno di socialità. Era il 2013-2014 quando Riina sollecitava l’organizzazione di un attentato nei miei confronti. In quel momento mi sono reso conto di avere raggiunto una consapevolezza di dover leggere quelle carte, per cercare di capire il significato, come se il bersaglio di Riina non fossi io. Il magistrato è un soggetto che prova tutti i sentimenti che provano tutti, e guai se non fosse così. Quando lavora deve separare i sentimenti da quello che avviene fuori e dalle decisioni che deve prendere.
Consigliere, sono passati trent’anni dalle stragi. Oggi abbiamo ancora il bisogno di combattere le mafie? Ne vale ancora la pena?
Oggi come oggi e come prima è un dovere etico e morale ed è fondamentale per la promozione del consolidamento di una vera democrazia nel nostro Paese. Le Mafie non sono pericolose soltanto quando sparano o uccidono gli uomini e i rappresentanti delle istituzioni. Le mafie sono un cancro che pervade, oggi e forse più di prima, il tessuto sociale, culturale, economico, politico e imprenditoriale del sistema Paese. Noi dobbiamo uscire dal grande equivoco di fondo, nel quale sono caduti i governi italiani di tutti i tipi e di tutti i colori, che la mafia sia soltanto una questione di repressione della criminalità. La mafia calpesta la dignità, la libertà, la libertà d’iniziativa economica. Oggi ancor più di trent’anni fa è riuscita a mascherarsi dietro l’economia apparentemente legale. Quando noi andiamo a mangiare in un ristorante o a fare una vacanza in un villaggio turistico, o semplicemente andiamo a fare acquisti in un centro commerciale, non siamo nelle condizioni di sapere se in quel momento stiamo foraggiando le mafie. La lotta alla mafia oggi dovrebbe stare al primo posto nelle agende di qualsiasi governo e di qualsiasi colore esso sia.
In base a quanto da lei detto, possiamo affermare, citando Giovanni Falcone, che “la mafia è un fenomeno umano, ha avuto un suo inizio, un suo sviluppo ed avrà una sua fine”.
Noi facciamo, in Italia, i conti con il fenomeno mafioso almeno dal 1860. Da più di centosessant’anni nonostante il sacrificio di tante persone, dei passi in avanti che si sono fatti anche a livello legislativo, nonostante l’istituzione di diciotto commissioni parlamentari antimafia da quando esiste la forma repubblicana dello Stato. Il problema è ancora attuale. Non siamo riusciti a vincere la guerra, ma abbiamo semmai vinto alcune battaglie. Il sogno di Giovanni Falcone è ancora ben lontano dal realizzarsi. Io credo che la guerra si potrà vincere soltanto se ricorrono tre condizioni: la prima, è il mantenimento dell’impegno repressivo dello Stato, rendendo più forte ed efficace la magistratura, o meglio gli strumenti che questa ha per combattere le mafie; la seconda, è dove la politica una volta per tutte deve acquisire la consapevolezza dell’importanza della lotta alla mafia, e soprattutto deve smettere di delegare esclusivamente alla magistratura il compito di recidere i rapporti tra la mafia e la politica – quest’ultima dovrebbe, ancor prima delle indagini della magistratura, evitare che si consolidino i rapporti tra i suoi esponenti e i mafiosi, ed espellere eventualmente il soggetto che si è reso responsabile di quei comportamenti. Serve una responsabilità di tipo politico che nel nostro Paese non scatta mai; la terza ed ultima, passa da voi giovani, dovete gettare le basi di una rivoluzione culturale che deve passare anche attraverso il rifiuto di tutte quelle forme di accettazione del clientelismo, della raccomandazione, del lobbysmo, del concetto di appartenenza come strumento per andare avanti nella propria aspirazione lavorativa. Dovete essere voi il traino della rivoluzione culturale che deve partire dai cittadini. Quando vado a parlare nelle scuole o nelle università vedo c’è un grande interesse da parte di voi giovani.
Consigliere, passerei a un tema che ha visto la sua vita cambiare. Lei da giovane magistrato si è occupato della guerra tra la Stidda e Cosa Nostra gelese e nissena. Era il 1993 quando ricevette la sua prima minaccia di morte. Quante ne ha ricevute da quel giorno ad oggi?
Ovviamente non le ho contate, ma le minacce intese in senso proprio non sono quelle che preoccupano di più. Difficilmente il male intenzionato minaccia il magistrato. Mi hanno riguardato fatti di natura diversa, o di apprendere da collaboratori di giustizia o da intercettazione – come fu in quel caso nel 1993 o nel 2013 con Riina – apprendere che qualcuno ti vuole fare fuori, che non è una minaccia. La minaccia è quando qualcuno vuole impaurire un altro che lo vuole uccidere. È qualcosa di più grave delle minacce. È acquisire da fonti diverse la consapevolezza che qualcuno ti vuole uccidere. Nel mio caso è successo di apprendere che qualcuno aveva già acquistato il tritolo da utilizzare per un attentato nei miei confronti. Non è la minaccia diretta a preoccuparti, ma scoprire che qualcuno ti vuole fare fuori.
Questi avvenimenti che hanno caratterizzato la sua vita professionale e privata, ce n’è stato uno che in particolare ha impattato notevolmente su quest’ultima?
Purtroppo, le escalation che è venuto fuori negli anni dal 2010 al 2016, le intercettazioni di Riina, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo e le dichiarazioni di altri collaboratori quali Stefano Lo Verso ed altri. In quel momento è chiaro che da una parte la mia vita è cambiata notevolmente perché venni sottoposto al cosiddetto primo livello di protezione eccezionale. Una scorta asfissiante con l’utilizzo anche di uomini del GIS dei Carabinieri. Sono stati anni molto impattanti, perché finiscono col toglierti anche quei piccoli spazi di libertà che avevi. Pesa ancora di più la consapevolezza di coinvolgere anche indirettamente i membri della propria famiglia. Sarei un falso se dicessi che non sono state vicende che mi hanno cambiato la vita. Aggiungo anche che non è vero che non si provi la paura. Dietro queste vicende c’è stata anche tanta sofferenza, che è un po’ difficile da spiegare – se mi consente – a chi non l’ha vissuta.
La ringrazio Consigliere per questa sua condivisione. Avrei una curiosità, se lei non si fosse mai occupato di mafia, da magistrato di cosa le sarebbe piaciuto occuparsi?
Di quei reati che al pari di quelli mafiosi impediscono il realizzarsi del principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Penso in particolare ai reati dei colletti bianchi, ai reati contro la pubblica amministrazione, ai reati di corruzione. Quegli abusi del potere nei confronti del cittadino onesto, privo di appoggi politici, forse quel tipo di condotte avrei voluto focalizzare con il mio impegno nel lavoro. Oggi quel tipo di fenomeno criminale è interconnesso con le mafie.
Consigliere io la ringrazio per averci donato mezz’ora del suo prezioso tempo. In conclusione, vorrei chiederle che messaggio ha da dare ai giovani che vogliono attivamente combattere le mafie?
Senza nessuna forma di paternalismo perché non mi sento di dare insegnamenti a nessuno. Ma io direi ai giovani questo: conoscete, studiate, non vi fermate alla ricostruzione superficiale degli eventi e soprattutto portate avanti le vostre idee senza paura, rassegnazione e consapevoli del fatto che il potere quello più pericoloso vi vuole far diventare gregge non pensante. Conservate sempre la capacità di pensare e lottare per le vostre idee a qualunque costo. Senza mai ricorrere alla violenza ma senza mai rinunciare per paura, convenienza o opportunismo alle vostre idee.
A cura di Mattia Muzzurru