Inflaction Reduction Act: la nuova minaccia per l’Europa arriva dagli Stati Uniti?

La nuova minaccia per l'economia europea si chiama "Inflaction Reduction Act", una legge approvata dal Presidente Biden per sostenere gli investimenti in energia green e ridurre l'inflazione. Ma è davvero così pericolosa come sembra?

Da ormai più di un anno, negli incontri tra rappresentanti dell’Unione Europea e degli Stati Uniti ricorrono sempre tre parole, che non sono “sole, cuore, amore” ma “Inflaction Reduction Act” o IRA.

L’IRA è una legge approvata dal Congresso ad Agosto 2022 ed entrata in vigore a gennaio del 2023, che contiene un’ampia serie di investimenti, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, frenare l’inflazione e al contempo favorire la transizione energetica, gli investimenti in energia rinnovabile e la diffusione dei veicoli elettrici.

L’incentivo principale utilizzato per incentivare la scelta di investire nel green è il credito d’imposta, che lo Stato americano garantirà a imprese e cittadini che sceglieranno di orientare le loro scelte di produzione e di acquisto verso una maggiore sostenibilità ambientale.

L’IRA rappresenta, almeno sotto il punto di vista dell’investimento monetario, il più grande tentativo di contrastare il cambiamento climatico nella storia degli Stati Uniti, facendo segnare una netta discontinuità con l’era delle politiche ambientali di Trump.
Basti pensare che secondo le stime del Governo federale, si prevede una riduzione delle emissioni di gas serra del 40% rispetto al 2005, contro una riduzione attesa del 10% a politiche invariate.

Eppure, al di fuori degli Stati Uniti il dibattito si è concentrato molto di più su un altro aspetto, riguardante il contenuto protezionistico di alcune misure dell’atto. Il piano americano di stimolo dell’economia, infatti, si fonda su imponenti sussidi in settori di mercato ancora acerbi e in espansione, come quelli delle auto elettriche e delle componenti energetiche per le energie rinnovabili. Il costo di produzione è ancora elevato e il finanziamento da parte del governo americano può creare una distorsione nel mercato internazionale, attraendo massicci investimenti in Ricerca e Sviluppo oltreoceano.

Ma le misure più contestate sono i cosiddetti “local-content requirements”. Ovverosia un vincolo per l’accesso al credito di imposta, previsto per alcune produzioni, che richiede che una certa percentuale del bene e dei suoi componenti siano prodotti in America.

In particolare, sono nell’occhio del ciclone due misure.
La prima è il “Credito per la produzione manifatturiera avanzata”, volto a incoraggiare la produzione di alcune componenti energetiche negli Stati Uniti, è vincolato al luogo di produzione, che deve avvenire negli Stati Uniti, o nella nazionalità dell’azienda, che deve essere statunitense.

L’altra misura è il “Credito per l’acquisto di veicoli elettrici, plug-in hybrid e a idrogeno”, che prevede un credito di imposta fino $3750, a condizione che una percentuale minima dei minerali critici utilizzati nelle componenti delle batterie sia estratta o lavorata negli Stati Uniti o in un paese aderente all’Accordo di libero scambio (Canada e Messico), e un credito di ulteriori $3750 se una certa percentuale di componenti per la batteria sono stati lavorati o assemblati in Nord America.

Quale può essere impatto dell’IRA sull’industria europea?
In Europa, questa apparente riproduzione in salsa Democratica, sotto lo slogan “Buy American” proposto da Biden, dell’ “America First” di Trump ha immediatamente allarmato le cancellerie del continente e la Commissione.

Il timore è che gli incentivi spiazzino l’industria europea a favore di quella americana, inducendo imprese europee a localizzarsi negli Stati Uniti, diminuendo la produzione, facendo crollare le esportazioni e aumentando il prezzo sul mercato europeo.
Una situazione che, nelle parole dei politici e dei funzionari europei, può potenzialmente diventare esplosiva per l’industria europea, già in sofferenza dopo pandemia, invasione russa dell’Ucraina, scarsità di materie prime, aumento dei prezzi (in particolare dell’energia).

La domanda che viene da porsi, a quasi un anno dall’entrata in vigore dell’IRA, è quanto questi rischi si siano avverati o possano effettivamente avverarsi. Allo stesso quesito prova a rispondere una dettagliata relazione prodotta per la Commissione Affari Economici e Monetari del Parlamento Europeo, che sottolinea come gli effetti sull’economia europea siano controversi.

Da un lato, secondo le stime di Bruegel e della Hertie Schools citate dalla relazione, il credito di imposta di $7500 per i consumatori potrebbe diminuire il costo medio per i veicoli elettrici di circa un quinto rispetto a quelli che non beneficiano dei sussidi. Questo potrebbe avere un impatto sostanziale sulla capacità dei produttori stranieri di mantenere le loro attuali quote nel mercato statunitense. Per l’UE, la conseguenza potrebbe essere una grande perdita di esportazioni verso gli Stati Uniti.

D’altra parte, se si prendono in considerazione alcuni fattori di contesto, l’impatto dei sussidi americani sul mercato europeo sembra essere mitigato, almeno nel breve periodo. Innanzitutto, la produzione europea di auto elettriche è tre volte maggiore di quella americana, ma è destinata principalmente al mercato interno. Il livello delle esportazioni europee di veicoli elettrici è in generale basso e la maggior parte dei veicoli esportati negli USA sono di fascia alta, quindi superano i limiti di prezzo che l’IRA stabilisce per accedere al credito di imposta.
A ciò va aggiunto che molti produttori europei già hanno dei siti di produzione in America, e possono, quindi, beneficiare degli incentivi.

Le stesse considerazioni non valgono, invece, per altri segmenti di mercato, nei quali l’impatto dell’IRA potrebbe essere più rilevante, come quello delle batterie e dei pannelli solari, in cui il costo di produzione in America relativamente al costo in Europa potrebbe scendere rispettivamente di un terzo e di due terzi.

Per quanto riguarda, invece, il rischio di una delocalizzazione di massa, anch’esso sembra, per il momento, meno probabile di quanto si pensasse all’inizio. Sebbene alcune aziende, tra cui Volkswagen e Tesla, abbiano già dirottato degli investimenti dall’Europa agli Stati Uniti per cercare di qualificarsi per l’ottenimento dei finanziamenti, va detto che il fenomeno di una parziale delocalizzazione verso l’America è già iniziato prima dell’approvazione dell’IRA, a causa delle politiche protezionistiche del governo Trump e del minore costo dell’energia rispetto all’Europa.

Tuttavia, la prospettiva di una importante delocalizzazione sembra improbabile, almeno per il momento ci sono poche certezze riguardo al futuro, che non permettono all’impresa una efficace programmazione. Il termine per l’accesso al credito varia a seconda della tecnologia che sarà finanziata tra il 2029 e il 2032, ma l’effettivo mantenimento in vigore delle misure dipenderà molto dalle condizioni politiche.

La legge è stata fortemente osteggiata dai Repubblicani, specialmente di ala Trumpiana, che non vedono la lotta contro il cambiamento climatico come una priorità e mantengono delle posizioni scettiche e, su alcuni aspetti, negazioniste. Se Trump dovesse vincere le presidenziali di novembre 2024, ci sono forti dubbi sul fatto che l’IRA possa avere vita lunga.

Tre (im)possibili vie di uscita e l’elefante nella stanza chiamato OMC
Per rispondere a queste misure, l’Unione Europea ha di fronte a sé quattro strade, non necessariamente alternative tra loro, ma di cui solo una sembra effettivamente percorribile.

La prima è quella di “rispondere al fuoco con il fuoco”, cioè di adottare anch’essa misure protezionistiche, imponendo dazi o sussidi. Il rischio sarebbe, però, di scatenare una guerra commerciale dalle conseguenze imprevedibili, che finirebbe probabilmente con l’indebolire economicamente sia gli Stati Uniti che l’Europa e minarne la credibilità internazionale.
Nonostante le dichiarazioni forti dei leader europei agli inizi, questa ipotesi sembra ormai tramontata, se non perché sconveniente, quantomeno perché l’Europa non sembra averne la forza né politica e né economica.

La seconda strada è negoziale e consiste nel richiedere un’esenzione dalla disciplina dell’IRA per i prodotti realizzati o lavorati in Europa, simile a quella garantita a Canada e Messico. Anche questa via è, però, improbabile.

Nonostante i buoni rapporti tra gli alleati, la pretesa europea sembra esagerata. Occorre ricordare che tra i tre Paesi nordamericani vige dal 1994 un accordo di libero scambio (il North American Free Trade Agreement, NAFTA, sostituito nel 2020 dallo US-Mexico-Canada Agreement, USMCA). Al contrario, UE e USA stanno negoziando il loro trattato commerciale (il Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP) dal 2013 e, dopo dieci anni, la chiusura dell’accordo sembra ancora lontana.

In alternativa, gli Stati Uniti stanno aprendo a delle concessioni per un’esenzione limitata ai minerali estratti o lavorati in UE, ma anche in questo caso l’Unione Europea rischia di perdere credibilità di fronte ai suoi partner internazionali, accettando che gli USA violino il diritto internazionale a piacimento, mentre negozia dei vantaggi solo per se stessa.

L’ultimo aspetto di questa intricata vicenda tocca, infatti, proprio il diritto internazionale… o almeno ciò che rimane di quell’ordine internazionale immaginato nel secondo dopoguerra e che ora sembra obsoleto, ma che non si riesce a riformare.

Nessuno ne parla esplicitamente, ma tutti lo sanno, rendendo la questione il più classico degli elefanti nella stanza negli incontri tra i rappresentanti europei e statunitensi: le misure contenute nell’Inflaction Reduction Act riguardo i local-content requirements si pongono in palese violazione delle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Dunque, la possibilità per l’UE è di promuovere un ricorso alla OMC che in un mondo ideale sarebbe anche la strada più ragionevole, mentre invece sembra la più difficilmente percorribile.

Gli europei sono restii ad accedere all’OMC sia per motivi strategici (per esempio, non indebolire la NATO a fronte dell’invasione russa dell’Ucraina) e sia perché l’OMC ha tempi di risoluzione delle controversie lunghissimi, necessita da anni di profonde riforme, sulle quali bisognerebbe trovare un accordo tra tutti i partner, Cina inclusa, che sembra ad oggi irraggiungibile.

A ciò va aggiunto, soprattutto, che da alcuni anni gli Stati Uniti ne stanno effettivamente impedendo il corretto funzionamento. L’Organo d’appello dell’OMC, infatti, non è più in funzione perché il governo americano non nomina il proprio rappresentante dal 2019, e di conseguenza non può essere raggiunto il numero legale di membri per esprimere giudizi sulle controversie avanzate.


L’unica strada rimasta: l’autonomia strategica
L’unica strada che rimane percorribile dall’Unione Europea è, dunque, quella di fare da sé. E così ha fatto, anche se, come spesso accade, sono ben presto emersi i limiti strutturali dell’assetto europeo.

Per comprendere a pieno la questione, bisogna partire da quella che è stata la reazione dell’UE a seguito l’approvazione dell’Inflaction Reduction Act. Una risposta che, apparentemente, non è stata così imponente se comparata alle misure messe in campo per fronteggiare lo shock negativo della domanda causato dalla pandemia o l’inflazione sui beni energetici causata dalla guerra in Ucraina.

In ogni caso, però, bisogna considerare che l’IRA è stato approvato in un momento storico-economico particolare per l’UE. Solo due anni prima è stato approvato il Next Generation EU, le limitazioni agli aiuti di Stato erano ancora sospese, si era in pieno dibattito sulla riforma del Patto di Bilancio e, infine, l’Europa si era appena resa conto dello svantaggio strategico di cui soffre, specialmente se messa a confronto con la Cina, nell’approvvigionamento di minerali e materie prime per la produzione di chip e batterie,

In realtà, quindi, il piano per “contrastare” gli effetti negativi dei sussidi americani l’UE l’aveva già messo in atto prima che il presidente Biden lanciasse il proprio pacchetto sul clima, con il Next Generation EU. A ciò si aggiungono i vari pacchetti di misure proposti dalla Commissione (Green Deal Industrial Plan, Chips Act, Critical Raw Materials Act) nell’ultimo anno, che sicuramente risentono della necessità di tutelare l’industria europea delle rinnovabili, ma che si inseriscono in un solco già tracciato che mira a potenziare gli accordi di libero scambio e a garantire un’indipendenza energetica e nell’approvvigionamento di materie prime critiche.

Il punto da tenere in considerazione riguardo la risposta europea non è, quindi, strettamente quello delle politiche attuate. Piuttosto, il dibattito su come rispondere all’IRA diventa rilevante se si osserva che esso è legato a doppio filo alla discussione sul futuro della governance dell’economia europea.

La primissima azione a supporto dell’industria europea per affrontare le conseguenze negative dell’IRA, ancora prima degli Acts già citati, è stata il prolungamento della sospensione delle regole sugli aiuti di Stato, sebbene con più limiti rispetto al passato, la cui applicazione era già stata interrotta a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, per permettere agli Stati membri di sostenere le imprese su cui gravava l’aumento dei prezzi dell’energia.

Il problema con l’allentamento delle regole aiuti di Stato è che più che una soluzione rappresenta una toppa, che rischia di essere peggio del buco. Permettere ai Paesi di finanziare le proprie imprese rischia di frammentare il mercato unico, dal momento che non tutti i Paesi hanno lo stesso spazio fiscale, cioè la stessa possibilità di intervenire nell’economia. Pertanto, le imprese dei Paesi più ricchi e con minor debito pubblico sarebbero molto più avvantaggiate delle altre.

Come intervenire dal lato della governance, allora, nel lungo periodo? Correndo il rischio di semplificare, si può affermare che l’IRA ha inasprito il dibattito tra due correnti di pensiero.

La prima è rappresentata dai sostenitori dell’idea di un mercato unico associato all’economia di libero mercato e di un processo decisionale economico interamente radicato a livello nazionale.

La seconda corrente di pensiero è composta da coloro che sono  a favore di un ruolo più forte dello Stato, che si traduce nello spostamento del processo decisionale economico dal livello nazionale a quello europeo e a spostare il potere dal Consiglio alla Commissione, con l’obiettivo ultimo di creare una politica industriale e una politica fiscale comuni.

La prima è stata l’idea dominante negli anni fino alla pandemia, in cui l’Unione Europea ha agito essenzialmente da soggetto regolatore e a tutela del libero mercato nella sua forma più astratta, fino all’approvazione del Next Generation EU, che ha cambiato il paradigma non solo a livello economico, ma anche di governance.

Certamente sarebbe scorretto parlare di una politica fiscale comune. Tuttavia, come è risaputo, la Commissione ha il compito di approvare i piani nazionali di investimento dei singoli Paesi all’interno del Next Generation EU e questo ruolo le garantisce de facto un potere di controllo e coordinamento delle politiche fiscali dei 27 Stati Membri, che esercita con la tattica “del bastone e della carota”, vincolando l’erogazione dei fondi a determinati obiettivi di investimento, ad esempio nella digitalizzazione o nella transizione ecologica.

Questo meccanismo garantisce alla Commissione un potere di orientamento dell’economia europea che è molto più incisivo di quello che avrebbe in condizioni ordinarie, nelle quali l’unico strumento a sua disposizione sono le raccomandazioni non vincolanti che emana ogni anno a giugno, in occasione del semestre europeo e che finirà una volta terminata la fase di esborso del RRF.

Nel dibattito scatenatosi subito dopo l’approvazione dell’IRA, la Commissione ha provato con insistenza a proporre la creazione di una sorta di “Next Generation EU permanente”, ovverosia la creazione di un fondo sovrano, magari finanziato con strumenti di debito proprio come accade ora con i bond emessi dalla Commissione.

L’idea è stata lanciata dalla Presidente von der Leyen nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2022 e ripresa dal Commissario per il mercato interno Thierry Breton, secondo il quale il fondo sarebbe uno strumento per portare avanti una politica industriale indipendente da parte della Commissione, sia a sostegno dei segmenti chiave del mercato europeo e sia in aiuto dei Paesi membri maggiormente indebitati e quindi compromessi nella loro possibilità di intervento pubblico nell’economia.

La realizzazione di uno strumento del genere richiederebbe, però, una modifica dei Trattati, a cui la maggior parte degli Stati si sono immediatamente e aspramente opposti, bloccando così sul nascere la proposta.

Anche nel rispetto dei Trattati, comunque, molto può essere fatto. Si potrebbe partire dallo snellimento della burocrazia per accedere ai fondi europei, che svantaggia le piccole imprese, alle quali mancano le competenze per orientarsi nelle procedure, e dal dare una maggiore organicità ai molteplici programmi e fondi attivati a sostegno della transizione ecologica.

Infine, come sempre, c’è un aspetto politico che l’Unione non può far finta di non conoscere ed è la necessità di raggiungere una propria “autonomia strategica”, cioè la capacità di impostare (e poi perseguire) obiettivi di politica estera e commerciale comuni e autonomi. Solo così l’UE riuscirà a rafforzare la posizione delle istituzioni europee ai tavoli negoziali internazionali, tutelare i propri interessi e rafforzare la propria competitività.

Insomma, l’Unione Europea deve (ancora) capire, cosa fare da grande per risolvere molti dei suoi problemi. Se non riuscirà, la vera minaccia dell’Europa rischia sempre più di essere sé stessa.

di Alessandro Ceschel

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