Dazi “buoni”? L’UE e l’esempio del dazio sul carbonio

“Di solito coloro che hanno un grande spirito, l’hanno ingenuo”, scrive Montesquieu nei Quaderni. Non staremo a discutere le ragioni o i torti del grande filosofo nell’accostare nobilità d’animo a sprovvedutezza. Piuttosto, la magniloquente citazione ben si adatta a descrivere l’errore (perché, almeno in politica internazionale, l’ingenuità è un errore – in altri contesti, lungi da me asserirlo) che il legislatore europeo ha invece cercato di evitare.

Il “grande spirito” e lo stato dell’arte
Il “grande spirito” dell’UE è rappresentato dalla lotta al cambiamento climatico. Negli ultimi anni Bruxelles ha decisamente ha alzato l’asticella rispetto alla sua azione sul tema. Le misure che fanno parte del Green New Deal, espressione coniata dalla prima Commissione von der Leyen per indicare l’impegno di riforme e gli ingenti finanziamenti orientati alla transizione verde, si sono rivelate spesso le più all’avanguardia nel mondo in termini di incisività, rigore degli obiettivi e innovatività (sebbene ancora non abbastanza secondo gli esperti).

L’ultimo anno ha visto la crescita dei gruppi di destra al Parlamento Europeo alle elezioni, favorevoli a un rallentamento della transizione e, talvolta, proprio portatori di istanze anti-ambientaliste, precorsa dal breve ma intenso periodo delle proteste degli agricoltori nei primi mesi del 2024. Questi cambiamenti politici minano sicuramente l’efficacia dell’azione europea (e quindi la sicurezza delle generazioni future, sic!) ma ancora non hanno toccato le fondamenta dell’impianto del Green Deal, che rimangono salde nello spirito, nonostante i turbamenti d’animo. Per ora.

Una parte importante della transizione, forse la maggiore, si concentra nella ricerca di un modello di sviluppo industriale più sostenibile. L’obiettivo è ridurre le emissioni di CO₂ provenienti dalla produzione industriale. La spada nelle mani dell’UE per tagliare le emissioni è a doppio taglio: da un lato ha introdotto una legislazione sempre più rigorosa in materia di materie prime, imballaggi e, soprattutto, mettendo un tetto alla quantità di emissioni prodotte dall’industria europea.

La misura regina, in tal senso, è il Sistema di Scambio delle Emissioni dell’UE (ETS), che ora si proverà concisamente (e non esaustivamente) a spiegare, perché è necessario per capire ciò di cui si tratterà a breve.

Il sistema ETS
L’ETS è un meccanismo che impone un tetto alle emissioni di CO₂ delle industrie europee più inquinanti, come quelle energetiche e manifatturiere. Ogni anno, l’Unione Europea (o l’entità competente in un altro sistema ETS) stabilisce un tetto massimo di emissioni (chiamato “cap”) che può essere emesso dai partecipanti al sistema (principalmente impianti industriali, centrali elettriche, ecc.). Le quote sono unità che corrispondono a una certa quantità di CO2 (ad esempio, 1 quota = 1 tonnellata di CO2).

Le quote possono essere assegnate alle imprese in due modi:

  • A titolo gratuito: alcune quote vengono distribuite gratuitamente, principalmente in base alla performance storica delle imprese, per evitare il rischio di delocalizzazione delle emissioni (fenomeno noto come “carbon leakage”).
  • All’asta: altre quote vengono messe all’asta, e le imprese devono acquistarle pagando un prezzo determinato dal mercato.

Con questo sistema inquinare ha un costo aggiuntivo e le imprese sono incentivate a innovare tecnologicamente per ridurre l’inquinamento per risparmiare sui costi o aumentare i ricavi vendendo le quote loro assegnate gratuitamente, a parità di output prodotto.

Le imprese che emettono meno CO2 di quanto previsto possono vendere le quote in eccesso ad altre aziende che hanno superato il loro limite di emissioni. Questo crea un mercato in cui il prezzo delle quote si forma in base alla domanda e all’offerta e, dunque, è economicamente efficiente.
Se un’impresa supera il limite di emissioni assegnato senza avere abbastanza quote, viene multata. Inoltre, dovrà acquistare quote aggiuntive nel periodo successivo per coprire il deficit.

Il sistema ETS è un sistema innovativo ed efficace, che riesce a far “interiorizzare” i “costi ambientali” della produzione. Ovverosia costi che vanno pagati per produrre, al pari dei costi degli input, ma che in assenza di una apposita non passerebbero per un sistema di prezzi e quindi non sarebbero pagati con denaro dall’impresa produttrice, ma solo dalla società attraverso il deperimento dell’ambiente.
Il problema è che se non passano per il sistema dei prezzi, l’impresa non li prende in considerazione e produce più di quanto sarebbe socialmente efficiente.

D’altra parte, il cambiamento richiede investimenti. Non si può obbligare le imprese a cambiare e lasciarle senza supporto economico. Questa pratica ha un nome preciso: autosabotaggio. Ma per fortuna, in questo senso, la mole di finanziamenti europei è imponente e, come ora si vedrà, è accompagnata da un importante tentativo di tutela della competitività delle industrie europee.

L’ingenuità: l’occasione fa l’uomo ladro.
Sistemi come l’ETS, o altre misure che obbligano le imprese a usare tecnologie più pulite, rappresentano chiaramente un costo aggiuntivo per i produttori europei. Un costo che i produttori extra-europei non devono affrontare e che le imprese europee non affronterebbero se spostassero la loro produzione.

E si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. Ora, anche senza dare giudizi morali a certe pratiche, appare chiaro che le imprese hanno incentivo a delocalizzare, ovverosia spostare gli impianti di produzione in Paesi extra-europei, dove i costi “ambientali” non sono presenti, e poi esportare nel mercato europeo.

In secondo luogo, anche i produttori che decidessero di rimane in UE, sarebbero esposti a uno svantaggio competitivo rispetto alle imprese che invece producono, senza tali costi, all’estero e quindi importano a prezzo più basso nel mercato europeo.

Certo, si potrebbe obiettare che le imprese europee avrebbero maggiore incentivo a innovare tecnologicamente e quindi, nel lungo periodo, potrebbero trovarsi più preparate di fronte a una transizione ecologica che si configura comunque come inevitabile. Tuttavia, nel breve periodo sicuramente rischiano di essere svantaggiate.


Una possibile soluzione: il CBAM

Non vedere queste problematiche sarebbe un’ingenuità che rischia di vanificare i nobili intenti. Ma per fortuna, non è così.

Proprio per salvaguardare la competitività dell’industria europea è stato pensato e approvato il Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere o CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism).

Il CBAM mira a uniformare il prezzo del carbonio tra i prodotti nazionali e quelli importati. Nella pratica, funziona esattamente come un dazio sui prodotti inquinanti: chi vuole importare in Europa determinati prodotti deve dichiarare emissioni di CO₂ sono state generate durante la produzione e pagare una “tassa sulle emissioni”, pari al numero di “quote ETS” che sarebbe stato necessario acquistare per produrre lo stesso bene all’interno dell’UE. Se il paese di origine applica già un sistema simile, il costo del dazio sarà ridotto o azzerato.

L’idea è semplice, ma efficace: se inquini in UE o fuori, paghi lo stesso prezzo. Così facendo non vi è possibilità per le imprese a delocalizzare in paesi con normative ambientali più deboli e non si origina il vantaggio competitivo per le imprese estere.

Ma non solo, il CBAM crea un nuovo standard a livello internazionale che può essere replicato da altri Paesi e fornisce un incentivo alla riduzione delle emissioni globali e un all’innovazione tecnologica green.

Inoltre, garantisce un aumento dei fondi europei, resi possibili dal passaggio dei costi ambientali attraverso il sistema dei prezzi, che possono essere reinvestiti nella transizione ecologica.


2026: l’anno zero
L’idea di una tassa sul carbonio alle frontiere circola da anni, ma ha iniziato a concretizzarsi con il Green Deal Europeo e il pacchetto Fit for 55, il piano che punta a ridurre le emissioni UE del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.

Dopo lunghe trattative, la misura è stata approvata ad aprile 2023 ed è entrata in vigore in due fasi.
Dal il 1° ottobre 2023 alla fine del 2025 è stata attivata una fase sperimentale, durante la quale le aziende devono iniziare a monitorare e dichiarare le emissioni legate ai prodotti importati, ma senza pagare nulla.

Il sistema entrerà a regime dal 1° gennaio 2026, in concomitanza con il progressivo azzeramento delle assegnazioni gratuite di quote ETS ai produttori europei entro il 2034. A partire da questa data, chi importa nell’UE dovrà acquistare certificati CBAM per compensare le emissioni di CO₂ incorporate nei beni acquistati.

Almeno per il momento, Il CBAM non si applicherà a tutti i prodotti, almeno per il momento. L’UE ha deciso di partire con sei settori considerati particolarmente inquinanti: cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno. Con questo ambito di applicazione, il CBAM, una volta pienamente introdotto, catturerà più del 50% delle emissioni nei settori coperti dall’ETS.

 

Le criticità del sistema
Sulla carta, il CBAM è un sistema equo e innovativo, ma presenta comunque almeno due criticità.

Ciò che preoccupa di più è sicuramente l’impatto che potrà avere sui paesi in via di sviluppo, le cui imprese e governi potrebbero avere difficoltà ad adeguarsi al sistema che, in ogni caso, implica un aumento dei costi.

In secondo luogo, l’aumento della complessità delle pratiche burocratiche da espletare per importare in Europa potrebbe, almeno in un primo momento, rappresentare un costo e una difficoltà pratica non indifferente, soprattutto per le PMI.
Un esempio di come un aumento improvviso dei costi burocratici può impattare sulla produzione è recente: tutti ricordiamo le file di camion alla frontiera con il Regno Unito dopo Brexit, con i produttori che si sono trovati da un giorno all’altro a dover compilare un grande numero di moduli e autorizzazioni.

Almeno nei piani dell’UE, gli strumenti per affrontarle sono già stati predisposti. In particolare, per quanto riguarda il sostegno ai Paesi in via di sviluppo la Commissione evidenzia che il supporto europeo nella transizione ecologica delle economie meno sviluppate non si limita al CBAM, ma è già in corso da diversi anni attraverso iniziative come il Global Gateway, EU4Climate, EU4Energy, mirati a favorire l’adozione di politiche ambientali sostenibili e ridurre le emissioni incorporate nei beni esportati verso l’UE e si impegna a trasferire i fondi del dazio verso questi programmi.

Per prevenire i problemi di natura burocratica, invece, l’UE ha attivato la già citata fase sperimentale, supportata da una imponente campagna di informazione e condivisione di buone pratiche e problemi. L’obiettivo è di creare un periodo di apprendimento per tutte le parti interessate (produttori, importatori, agenzie governative estere e burocrazia europea) per arrivare preparati al momento di entrata a piano regime del sistema.


Una svolta nel commercio globale?
Il CBAM è il primo tentativo concreto di collegare il commercio internazionale alla lotta al cambiamento climatico.

Non è un caso che questo tentativo provenga dall’amministrazione europea, che negli ultimi anni è quella che maggiormente nel mondo ha contribuito alla lotta al cambiamento climatico. Non solo lo ha fatto in come riduzione di emissioni ma anche e soprattutto a livello normativo, innovando radicalmente la propria legislazione per adeguarla alla tutela dell’ambiente e per affrontare le sfide che essa riserva come, in questo caso, quelli della competitività.

Ancora una volta l’UE si propone come leader nella transizione ecologica e come riferimento per le nuove best practices economiche e normative. Se il sistema funzionerà, potrà sicuramente spingere altri Paesi a introdurre misure simili.

Certo, tutto dipenderà da come verrà applicato e da come reagiranno i partner commerciali dell’UE. Se da un lato, potrebbe accelerare la transizione ecologica globale, dall’altro rischia di innescare nuove tensioni nei rapporti commerciali internazionali, già turbati dal nuovo corso Trump.

L’Europa ha deciso di lanciare il sasso, ora resta da vedere quali onde produrrà.

di Alessandro Ceschel

 

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