Contro il tirocinio

Un sostantivo senza neanche un suo verbo

Il dibattito sui tirocini non retribuiti, specialmente nel settore culturale, museale e artistico, non è nuovo, ma la sua urgenza non accenna – e non deve – diminuire. In una società democratica, in uno stato di diritto, come si può giustificare una pratica che perpetua lo sfruttamento e contribuisce a una cultura del lavoro priva di dignità?

Il tirocinio promette di essere un momento pratico di raccordo tra il percorso formativo e quello lavorativo. Fondato sull’idea che lo studio e la formazione siano solo una dimensione teorica, il tirocinio promette di concretizzarli e di renderli concreti. Ci promette che se solo lo conducessimo con serietà, resilienza ed elasticità, troveremmo il lavoro perfetto.

Questo è ciò che crede e vende chi i tirocini li offre e propone. Chi i tirocini li conduce, però, li vive come strumento per offrire lavoro gratuito al padrone che ne ha necessità. Tale sistema che illude e sfrutta può essere generalmente ricondotto e collocato in un contesto neoliberista in cui il mercato del lavoro è stato deregolamentato, privilegiando il profitto e il guadagno di pochi.

Se poi guardiamo nel dettaglio il settore culturale, dove il lavoro è spesso percepito come una vocazione o un desiderio – più che come una professione necessaria – questa dinamica iniqua dei tirocini è particolarmente evidente.

Una fantomatica passione dello studente o del giovane, che si sottopone al tirocinio, è idealizzata per poi essere sfruttata come giustificazione per non riconoscere economicamente il valore delle conoscenze, delle competenze e delle abilità per cui si è formato ed educato. I tirocini non retribuiti diventano così un tassello fondamentale in un sistema che perpetua disuguaglianze: solo chi può permettersi di lavorare gratuitamente accede a queste opportunità, escludendo chi non ha mezzi economici sufficienti.

Il risultato è una perpetuazione delle élite che, specificatamente nel settore culturale, reca un danno profondo su ogni livello: culturale, educativo, sociale, lavorativo, economico.

Essere contro il tirocinio significa riconoscere la sua inconcludenza e la sua inconsistenza. Significa lottare contro il fatto che sia inconcludente, perché creato su di un mito e un’illusione: quella di trovare un lavoro certo e perfetto al termine di un periodo in cui l’unica educazione ricevuta è quella di poter essere sfruttati gratuitamente dal proprio padrone. Significa lottare contro il fatto che sia inconsistente, perché non rappresenta né un percorso di studio, né di lavoro, né di ricerca, né di riflessione, né di impegno o pratica

Contro il tirocinio, perché il tirocinio è un inganno creato da un sistema per sfruttarci. Un inganno, per cui i padroni non si sono nemmeno curati di ideare un verbo che lo possa descrivere. Di tirocinio, esiste solo il sostantivo, ma non il verbo “tirocinare”.

Esiste “lavoro” e “lavorare”, “studio” e “studiare”, perché allora non esiste un verbo per il mitico percorso di accesso al mondo del lavoro? Questa assenza è rivelatrice: il tirocinio è una costruzione concettuale dei padroni senza una concretezza, un fenomeno che non trova nemmeno una forma verbale per esprimere la propria essenza. Il verbo, infatti, rappresenta l’azione, il movimento, il contributo attivo. Il tirocinio, al contrario, si riduce a un sostantivo immobile che descrive una condizione passiva. Questo gioco linguistico riflette una verità più ampia: il tirocinio è un modello improprio, un’anomalia che maschera lo sfruttamento dietro un linguaggio apparentemente neutrale, lo sfruttamento dei padroni, nei nostri confronti.

Dal punto di vista economico, il tirocinio non retribuito è una forma di svalutazione del lavoro. Non retribuire un tirocinante significa negare il valore economico delle sue attività, relegandole a una dimensione non espressa, sospesa tra la formazione e il lavoro, che poi non corrisponde alla realtà. I tirocinanti non sono semplici osservatori: producono contenuti, contribuiscono alla gestione quotidiana delle realtà sotto cui operano, e spesso sono chiamati a colmare lacune lasciate dalla gestione di quelle stesse realtà.

Questa pratica, inoltre, è diseducativa. Insegna a noi giovani o studenti l’opposto del valore del nostro tempo, o del nostro lavoro, o della nostra persona o persino delle nostre conoscenze e competenze. Ci abitua ad accettare condizioni di sfruttamento come norma. Il tirocinio consolida la mentalità di un lavoro deregolato e sottopagato, impedendo qualsiasi progresso verso una società più equa, sana ed efficiente.

Il settore culturale – in particolare – dovrebbe riconoscere e rispettare quantomeno i valori di quello stesso patrimonio culturale che lo costituisce. Eppure, accettando e promuovendo tirocini non retribuiti, dimostra una contraddizione fondamentale. Come può un’istituzione culturale, che tutela e valorizza il patrimonio culturale, tollerare pratiche che negano i valori stessi che lo costituiscono? Così si crea una crisi anche di credibilità, facendo perdere alle istituzioni culturali che si affidano a tirocinanti non retribuiti, autorevolezza e legittimità.

Per superare questa situazione, è necessario un cambiamento radicale. Le istituzioni culturali devono assumersi la responsabilità di garantire e offrire un lavoro equo e rispettoso, riconoscendo il valore delle persone coinvolte.

Solo così possiamo trasformare il tirocinio da un sostantivo inconsistente a una pratica dignitosa, degna di un verbo che ne esprima la piena dignità.

 

Fonte immagine: foto di rawpixel da Pixabay (link: https://pixabay.com/it/photos/scrivania-lavoro-3139127/)

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