Cina-Taiwan, nuova escalation nello Stretto: esercitazioni militari dopo la visita della presidente Lai negli USA

Pechino torna ad agitare le acque dello Stretto di Taiwan. A partire dal 20 marzo, la Cina ha lanciato una serie di esercitazioni militari su larga scala attorno all’isola, scatenando un’ondata di preoccupazione internazionale. Si tratta della risposta diretta alla recente visita negli Stati Uniti della presidente taiwanese Lai Ching-te, accolta a Washington da esponenti di primo piano del Congresso e firmataria di un nuovo accordo commerciale bilaterale.

Il gesto di Pechino rappresenta l’ennesima prova muscolare in un contesto già fortemente polarizzato, dove le tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti continuano a intensificarsi, e dove Taiwan diventa il punto di frizione più sensibile tra le due superpotenze.

 

Simulazioni di blocco e missili nel Pacifico

Secondo quanto riportato dal Ministero della Difesa di Taipei, le esercitazioni militari cinesi iniziate il 20 marzo hanno coinvolto oltre 70 aerei da combattimento, una ventina di unità navali da guerra, missili a corto e medio raggio, nonché sistemi radar e di guerra elettronica. Le forze armate della Repubblica Popolare hanno messo in atto un blocco simbolico ma strategicamente studiato attorno all’isola di Taiwan, replicando una possibile manovra reale volta a isolare completamente l’isola sia via mare che via cielo.

I missili lanciati nelle acque internazionali a sud-est dell’isola, sebbene non abbiano colpito obiettivi specifici, sono stati chiaramente percepiti come un messaggio di deterrenza non solo a Taipei, ma anche a Washington. Alcuni analisti militari hanno definito le operazioni “una simulazione completa di assedio moderno”, con tanto di test di comunicazioni criptate, intercettazioni e mobilitazione di droni.

Di fronte a tale dimostrazione di forza, il governo di Taiwan ha innalzato il livello di allerta militare, rafforzando le difese costiere, monitorando costantemente i cieli con radar di ultima generazione e dispiegando aerei da caccia nei settori più esposti. “Non cerchiamo lo scontro, ma non ci lasceremo intimidire”, ha dichiarato il portavoce del ministero della Difesa taiwanese in un comunicato ufficiale.

La reazione della popolazione civile, pur mantenendo una certa compostezza, riflette un crescente senso di incertezza. Le scuole non sono state chiuse, né sono stati attivati rifugi, ma molti cittadini hanno cominciato a fare scorte e a seguire le istruzioni diffuse attraverso le app di protezione civile. Il clima è quello di una calma tesa, dove la possibilità di un’escalation reale non viene più esclusa.

Gli Stati Uniti rispondono: “Minaccia alla stabilità regionale”

La risposta degli Stati Uniti non si è fatta attendere. Subito dopo l’annuncio delle esercitazioni cinesi, il Dipartimento della Difesa ha ordinato il dispiegamento della portaerei USS Ronald Reagan e di un’intera flottiglia di supporto nella regione dell’Indo-Pacifico. A questa mossa si è accompagnato un rafforzamento del dispositivo radar e satellitare, per monitorare in tempo reale ogni movimento delle forze armate cinesi.

Ma la reazione americana non è stata solo militare. A livello diplomatico, già l’ex Segretario di Stato Antony Blinken definì le manovre di Pechino “una chiara minaccia alla stabilità regionale e un atto irresponsabile che rischia di compromettere l’equilibrio strategico nell’area indo-pacifica”. Le parole di Blinken, seppur misurate, rivelano una crescente preoccupazione all’interno della precedente amministrazione Biden, che si trova nella difficile posizione di dover sostenere Taipei senza provocare una guerra aperta.

La dottrina della “strategic ambiguity”, adottata dagli Stati Uniti da decenni, comincia a mostrare i suoi limiti. Da un lato, Washington evita di dichiarare esplicitamente che interverrebbe in caso di invasione di Taiwan; dall’altro, continua a fornire armi, supporto tecnologico e addestramento alle forze armate taiwanesi. Questa ambiguità, che ha funzionato come deterrente finora, oggi rischia di essere interpretata da Pechino come un segnale di debolezza o esitazione.

La vera posta in gioco per gli Stati Uniti non è solo la difesa di un alleato non ufficiale, ma la credibilità della loro leadership globale. Se lasciassero Taiwan sola davanti all’aggressione cinese, l’intero sistema di alleanze costruito nel dopoguerra – dal Giappone alla Corea del Sud, fino alla NATO – potrebbe iniziare a sgretolarsi. Al contrario, un coinvolgimento militare diretto comporterebbe il rischio di uno scontro frontale tra le due maggiori potenze nucleari del mondo.

È uno scenario da guerra “programmata”, dove ogni mossa è calibrata, ogni parola misurata, ma l’escalation resta una possibilità reale. In questo equilibrio precario, anche un errore tecnico, un incidente militare o una mossa politica sbagliata potrebbero trasformarsi nella scintilla di un conflitto incontrollabile.

Preoccupazione internazionale e rischio economico

Mentre le navi militari solcano le acque del Pacifico e gli aerei da combattimento sorvolano lo Stretto, il mondo osserva con crescente apprensione. Taiwan non è solo un punto caldo geopolitico: è anche una centrale tecnologica globale, responsabile della produzione di oltre il 60% dei microchip avanzati utilizzati in computer, smartphone, automobili e persino nei sistemi di difesa.

Le esercitazioni militari cinesi, oltre a rappresentare una minaccia alla sicurezza, sono anche un rischio sistemico per l’economia globale. Gli operatori finanziari hanno reagito con prudenza, ma i mercati asiatici hanno registrato cali sensibili nei settori tecnologico e logistico. Le assicurazioni marittime hanno già annunciato un aumento dei premi per le tratte commerciali che attraversano lo Stretto di Taiwan.

Nel frattempo, l’Unione Europea ha diffuso un comunicato ufficiale nel quale chiede la “cessazione immediata delle provocazioni militari e il ritorno al dialogo”, sottolineando come la sicurezza dell’area indo-pacifica sia diventata ormai una questione globale, non regionale. Il Giappone ha messo in allerta le proprie forze di autodifesa, mentre l’Australia ha avviato consultazioni urgenti con gli Stati Uniti e altri membri del patto AUKUS.

La crisi di marzo 2025 dimostra con forza quanto il mondo sia oggi interdipendente e vulnerabile. Un’eventuale chiusura dello Stretto di Taiwan – che rappresenta circa il 40% del traffico globale di container – non sarebbe un problema solo asiatico: paralizzerebbe le catene logistiche internazionali, colpendo duramente l’Europa e gli Stati Uniti.

Siamo di fronte a un paradosso: la globalizzazione, che ha garantito prosperità e progresso per decenni, ci ha resi più esposti alle tensioni locali. Un conflitto in una piccola isola dell’Asia orientale può avere effetti a cascata in tutto il mondo. Per questo, la diplomazia internazionale non può più permettersi il lusso dell’attendismo.

 

Una crisi ancora aperta

A oggi, la situazione nello Stretto resta fluida e imprevedibile. Le esercitazioni militari cinesi sono tuttora in corso, mentre la diplomazia lavora febbrilmente per evitare che la tensione sfoci in qualcosa di più grave. Taipei continua a invocare la calma, ma al contempo si prepara al peggio: rafforzamento delle difese costiere, approvvigionamento di carburante e materiali strategici, piani di evacuazione delle aree sensibili.

Pechino, dal canto suo, sembra voler testare i limiti della tolleranza occidentale, sondando quanto lontano può spingersi senza provocare una reazione diretta. Xi Jinping ha fatto della riunificazione con Taiwan un obiettivo personale e politico, un tassello fondamentale nella costruzione del “sogno cinese” del XXI secolo.

La crisi di Taiwan ci mette di fronte a una realtà scomoda: l’ordine globale che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra è in fase di trasformazione. Le vecchie regole non bastano più. In questo contesto, sarà cruciale il ruolo delle organizzazioni multilaterali, ma anche la capacità dei singoli Stati di costruire coalizioni credibili, stabili, non basate solo sulla forza ma anche sulla fiducia e sulla condivisione di valori.

Il futuro dell’Indo-Pacifico – e forse del mondo intero – si sta decidendo oggi, nelle acque dello Stretto di Taiwan. Se il mondo democratico vorrà davvero difendere i suoi principi, dovrà dimostrare di saperli proteggere anche lontano dai propri confini.

 

Di Costanza Poerio

 

 

Bibliografia

  1. BBC News. (2025, March 21). China holds major military drills around Taiwan after US visit. BBC. https://www.bbc.com/news/world-asia-68642176
  2. Il Post. (2025, March 20). Le nuove esercitazioni militari cinesi attorno a Taiwan. Il Post. https://www.ilpost.it/2025/03/20/cina-esercitazioni-militari-taiwan/
  3. (2025, March 21). Taiwan condemns China’s drills as military intimidation. Reuters. https://www.reuters.com/world/asia-pacific/china-launches-military-exercises-near-taiwan-2025-03-21/
  4. (2025, March 22). Cina-Taiwan: continua l’escalation nello Stretto, allerta a Taipei. ANSA. https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/asia
  5. (2025, March 22). Esercitazioni militari intorno a Taiwan, una nuova fase di tensione tra Cina e Stati Uniti. Internazionale. https://www.internazionale.it/notizie/esteri

 

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