I milioni di persone che scappano dall’Ucraina rischiano di mettere in imbarazzo chi fino ad ora ha sfruttato la paura per fare consensi sulla pelle delle persone. La soluzione che hanno trovato? Dividere tra “buoni” e “cattivi” e, paradossalmente, uscirne rafforzati
Migranti buoni e migranti cattivi?
Le immagini che ci arrivano dalle frontiere con l’Ucraina sono strazianti. Milioni di persone costrette a lasciare la loro vita e a cominciarne una nuova, senza avere una prospettiva, un obiettivo definito, senza sapere cosa ne sarà della loro terra e dei loro affetti. Poche persone in Europa possono compatirle a pieno, perché poche si sono trovate nella stessa situazione.
L’Europa e il suo popolo, però, si sono dimostrati un faro di vita per chi fugge dalla morte. I paesi europei e la Moldavia hanno accolto finora quattro milioni di persone (l’UNHCR tiene il conto aggiornato qui). Un numero altissimo, spaventoso, che non si vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale.
Ma “ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornare”, cantava Tiziano Ferro, quanto mai attuale. Questa accoglienza incondizionata, questa luce che arriva dal Veccchio Continente, non può cancellare più di vent’anni di razzismo, respingimenti illegali, morti.
Il confronto con le altre crisi
Quella odierna non è ovviamente la prima crisi migratoria che l’Europa è chiamata ad affrontare. Lo stesso meccanismo di “protezione temporanea” che garantisce un permesso di soggiorno di un anno, rinnovabile fino a tre, a chi dimostra di essere cittadino di un paese in guerra o che ci  soggiorna da “lungo tempo”, era stato già ideato per far fronte all’ondata migratoria scatenata dalla guerre in ex-Jugoslavia e Kosovo negli anni ’90.
La direttiva fu però approvata soltanto nel 2001, troppo tardi per essere impiegata in quella crisi. Lo strumento, che può essere attivato solo dal Consiglio Europeo, a condizione che si verifichi un “afflusso massiccio di sfollati” in entrata nel territorio europeo, da allora non è stato mai attivato. Neppure nella crisi del 2015, quando milioni di persone fuggirono dalla Siria devastata dalle bombe di Putin, né per la recente crisi Afghana.
Certo, le crisi non si possono equiparare. Innanzitutto a livello di numeri, i quattro milioni raggiunti rappresentano il quadruplo degli arrivi del 2015 e 2016, anche perché, allora come oggi, la strategia dei paesi europei è quella di pagare Paesi terzi (come la Turchia per la crisi del 2015 o il Pakistan per la crisi afghana) per evitare che le persone arrivino nel Continente. Una strategia evidentemente non applicabile in questo caso.
Ma proprio confrontando i numeri, viene da chiedersi: perché è stata così abusata la parola “crisi” quando si è parlato di flussi migratori verso l’Europa in questi anni? Se stiamo provando, se pur con difficoltà , ma comunque efficacemente, a gestire un esodo di tali proporzioni, cosa ci ha reso impossibile gestire un numero di persone decisamente minore nel recente passato? Sarà forse che dietro l’ombrello della “crisi” si volevano nascondere immobilismo e opportunismo?
Riaffiorano inevitabilmente le immagini delle persone bloccate questo inverno al confine con la Bielorussia. Sovvengono le dichiarazioni allarmate dei politici che affermavano che era una situazione ingestibile. La Polonia è la stessa nazione che ora si sta distinguendo per l’accoglienza dei profughi ucraini, qualche mese fa inviava l’esercito a impedire che i profughi varcassero i suoi confini e fomentava i movimenti suprematisti bianchi. Lo stesso governo proiettava in conferenza stampa un video in cui si vedeva una persona praticare atti di zoofilia, falsamente affermando che fosse stato ritrovato sul telefono di un migrante. Le stesse persone ora fanno dell’accoglienza dei rifugiati un vanto.
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Gli stessi governi, polacco e ungherese, che hanno negli ultimi anni accusato costantemente le ONG e messo parzialmente fuori-legge il loro operato, ora si ritrovano a dover dipendere da queste per gestire un’emergenza che altrimenti li travolgerebbe.
Gli stessi due Stati che, assieme alla Repubblica Ceca, nel 2020 facevano ricorso (perdendolo) contro la Commissione europea per evitare di dover applicare il meccanismo di ricollocamento, ora invocano una strategia a livello comunitario.
Gli stessi Ministri dell’Interno che poco tempo fa chiedevano che i fondi europei potessero finanziare la costruzione di muri, ora chiedono che l’Europa li aiuti con i soldi per organizzare l’accoglienza.
Un problema di narrazione
Non c’è imbarazzo nelle parole e nelle gesta di queste persone, come non se ne registra in quello delle opinioni pubbliche che per anni le hanno supportate, acclamate, a tratti venerate, e sono cadute nell’inganno dell’odio per sfuggire alla paura.
Non si ravvisa timore in questo voltafaccia, perché è presto giustificato, ricorrendo alla dicotomia più antica ma nel contempo più efficace di sempre: “buoni” e “cattivi”.
Funziona più o meno così. Le persone che scappano dall’Ucraina sono i “buoni”. Sono simili a noi, sono bianchi, occidentali, cristiani. Abbiamo facilmente compassione di loro: i giocattoli dei bambini, i vestiti che indossano, i volti bianchi e puliti, i tagli di capelli, i mezzi di trasporto (fuggono in treno, mica in barca, a piedi, su una jeep nel deserto), le città che lasciano, le vite precedenti: avremmo potuto essere noi.
E poi abbiamo imparato a conoscere le persone e le loro storie. Non solo abbiamo vissuto la crisi del 2014 e ci siamo compiaciuti che loro volessero essere come noi, europei, ma seguiamo le notizie sull’Ucraina da almeno qualche mese prima della guerra. E gli inviati, le interviste alla frontiera, le storie di chi scappa. Loro non ci possono fare paura, sono proprio come noi! Anzi, abbiamo il dovere morale di salvarli da Putin e dalle sue bombe.
Invece gli altri, i “cattivi”, sono troppo diversi da noi. Intanto sono neri, poi parlano lingue incomprensibili, hanno vestiti stracciati, barbe lunghe, vengono da posti remoti. Chissà che malattie girano in quei luoghi, quali precetti arretrati impone la loro religione, che abitudini sporche e incivili hanno le loro culture. Chissà se scappano davvero dalla guerra… Non conosciamo i conflitti africani o medio-orientali, non abbiamo le immagini delle città distrutte davanti agli occhi, non ci sono interviste, collegamenti, storie in tv e sui social. Probabilmente vengono qua solo per cercare lavoro o rubare più facilmente.
Sono entrambe reazioni emotive, è chiaro, in un caso l’elemento irrazionale che è in ognuno di noi ci spinge alla compassione, nell’altro alla paura. Lungi da chi scrive condannare l’irrazionalità o tantomeno la paura, utile meccanismo di difesa. Ma nell’irrazionalità siamo deboli, vulnerabili, abbiamo il fianco scoperto e c’è chi è bravo a manipolare le nostre emozioni. Ed è nelle pieghe della paura che si insinua l’odio.
Chi è sopravvissuto agitando lo spettro della paura, deve ora uscire dall’imbarazzo. Ma chi è un abile comunicatore lo sa, basta separare di rifugiati “veri” e “finti”. Come molti politici bianchi, occidentali, che si professano cristiani, hanno fatto in questi giorni, giustificati e apprezzati dai loro elettori.
La Fortezza Europa si è aperta ma solo da un lato e solo temporaneamente. Ahimè rischia di illudersi chi pensa che questa crisi possa mutare la percezione del migrante nella nostra società  europea. Perché, come in ogni dicotomia, ciascuna posizione si rafforza con l’emergere del suo opposto: esistono i migranti “cattivi” a maggior ragione perché ora esistono i “buoni”. Bianco e nero, no?
Fonte immagine: foto di Gerd Altmann da Pixabay (link: https://pixabay.com/it/photos/barca-acqua-profugo-fuga-asilo-998966/)